Witold Gombrowicz – Incipit di Ferdydurke #1

– 6 giorni

Che Gombrowicz ci benedica e ci porti fortuna! Per questo motivo riportiamo l’inizio di Ferdydurke, uno dei più bei romanzi modernisti, che narra la vicenda di una regressione verso l’infanzia di un uomo di trent’anni. Una prosa nervosa e folgorante per una riflessione sul concetto di maturità/immaturità dell’uomo adulto.  Per chi non lo conoscesse, Gombrowicz è uno scrittore polacco, nato nel 1904 e morto nel 1969. Laureatosi in legge, nel 1930 decide di dedicarsi alla letteratura. Altre opere consigliate sono Cosmo e Pornografia.

Quel martedì mi svegliai nello smorto evanescente attimo quando la notte vera e propria è ormai finita e l’alba non riesce ancora a farsi strada. Destato di soprassalto, stavo già per precipitarmi in taxi alla stazione pensando di dover partire. Mi ci volle un minuto buono per rendermi conto che nessun treno, ahimè, mi aspettava alla stazione, e che non era quella la mia ora. Giacevo in una luce lattiginosa, il corpo pervaso da una paura insopportabile che mi opprimeva angosciamente l’anima, l’anima opprimeva il corpo e ogni intima fibra si torceva nel presentimento che niente sarebbe successo, niente cambiato, niente sopraggiunto e qualunque cosa avessi intrapreso il risultato sarebbe sempre stato zero via zero. Era il terrore del non esistere, la paura del non essere, l’ansia del non vivere, il timore della non realtà, l’urlo biologico di tutte le mie cellule davanti alla lacerazione, alla dispersione, allo sparpagliamento interiore. Terrore dell’indecorosa inezia piccinereria, orrore della dissoluzione, panico del frazionamento, paura della violenza che mi stava dentro e che mi minacciava dall’esterno; ma più importante di tutto, qualcos’altro incombeva dappresso senza un attimo di respiro, qualcosa che avrei potuto definire un intermolecolare senso di beffa, di scherno interiore, l’intimo dileggio delle varie parti scatenate del mio corpo e delle analoghe parti dell’anima mia.

Proprio di tale paura il sogno che mi aveva tormentato e poi svegliato era l’espressione manifesta. Per un’inversione temporale che alla natura non dovrebbe essere concessa, mi ero visto qual’ero all’età di quindici, sedici anni: ero ripiombato nella gioventù e, ritto al vento su una pietra accanto a un mulino sul fiume, dicevo qualcosa, riudivo la mia stridula vocetta polla strina ormai da tempo sepolta, vedevo il mio naso non del tutto cresciuto sopra la faccia non del tutto formata, la mani troppo grandi; avvertivo tutta la spiacevole consistenza di quella fase di mezzo e transitoria del mio sviluppo. M’ero svegliato metà esilarato e metà impaurito: mi pareva che il mio Io attuale, già oltre la trentina, scimmiottasse e deridesse lo sbarbatello implume che ero stato una volta e che questi a sua volta scimmiottasse me e che con pari diritti ci deridessimo a vicenda. Sciagurata memoria, che ci costringi a conoscere per quali vie giungemmo al nostro stato attuale! Poi, nel dormiveglia, ma ormai desto, mi parve che il mio corpo non fosse omogeneo, che alcune sue parti fossero ancora infantili e che la mia testa canzonasse e sbeffeggiasse il mio polpaccio, il polpaccio la testa, il dito se la ridesse del cuore, il cuore del cervello, il naso dell’occhio, l’occhio ridacchiasse e sghignazzasse del naso e che tutte queste membra si violentassero selvaggiamente in un’atmosfera di onnipervasivo, lancinante pansarcasmo. Ma quando finalmente riacquistai coscienza e presi a considerare la vita, non solo la paura non diminuì di un ette ma si fece ancora più forte, sebbene a tratti la interrompesse (o intensificasse) un risolino che le labbra non riuscivano a trattenere. Nel mezzo del cammin della mia vita mi ritrovai per una selva oscura. E il guaio era che si trattava di una selva verde.

Il fatto era che nella veglia mi ritrovavo altrettanto indefinito e sparpagliato che nel sonno. Da poco avevo varcato il Rubicone dell’ineluttabile trentina, superando la fatidica soglia; stato civile e apparenze esteriori mi qualificavano come uomo maturo: e tuttavia non lo ero. Ma allora che cos’ero? Un trentenne giocatore di bridge? Un lavoratore occasionale, intermittente, che espletava minute attività vitali con scadenze ben precise? Qual era la mia situazione? Frequentavo bar e caffè, incontravo gente, scambiavo chiacchiere e talvolta perfino idee, ma in realtà la mia situazione non era per niente chiara e francamente non avrei proprio saputo dire dove finiva l’uomo e dove cominciava il ragazzino; per cui, a metà della mia vita, mi trovavo a non essere né l’uno né l’altro, non ero nessuno e i miei coetanei, ormai sposati o sistemati in ben precise posizioni, non posizioni nei confronti della vita ma nei vari uffici statali, mi guardavano con comprensibile diffidenza. Le mie zie, quella caterva di mezze madri appiccicate e aggiunte ma sinceramente affezionate, da tempo si davano da fare perché mi trovassi una sistemazione qualsiasi, avvocato, impiegato, perché la mia indefinitezza per loro era un tormento; non sapendo chi ero non sapevano neanche come parlarmi; riuscivano solo a farfugliare.

“Gingio,” dicevano tra un borbottio e l’altro: “Ragazzo mio, ormai è ora. Che dirà la gente? Se proprio non vuoi fare il dottore, fa’ il controllore, fa’ quel che ti pare, purché si sappia una buona volta chi sei… Purché si sappia!”.

Le sentivo sussurrarsi l’un l’altra che non sapevo muovermi in società e nella vita, dopodiché ricominciavano a farfugliare, sfinite dal vuoto che creavo nelle loro teste. In effetti quella situazione non poteva durare in eterno. Inflessibile e categorico l’orologio della natura spostava le sue lancette. Quando gli ultimi denti, quelli del giudizio, mi furono spuntati, tutto sembrò indicare che ormai lo sviluppo era completo e che l’ora dell’ineluttabile assassinio era scoccata: l’uomo doveva uccidere il ragazzino inconsolabile e volar via come una farfalla, lasciandosi dietro l’ormai defunta crisalide. Dalle nebbie, dal caos, da torbidi acquitrini, da gorghi, boati, correnti, da giunchi e canneti, dal gracidio batracico dovevo trasferirmi tra limpide forme cristallizzate, pettinarmi, ravviarmi tutto, entrare nella vita sociale degli adulti e dissertare con loro.

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