Questo racconto è stato scritto ormai qualche anno fa ed è frutto di una riflessione dolente e amara sulla condizione umana; l’io (tu) narrante che espone i fatti non corrisponde all’io(tu) biografico dell’autore, ma è solamente un congegno narrativo usato dal sottoscritto, per tentare di rendere la diegesi più verosimile e d’impatto; tutti i personaggi e gli avvenimenti in esso narrati, conseguentemente, sono scaturiti dalla mia fantasia; dico questo, per fugare ogni dubbio sulla corrispondenza tra finzione narrativa e vita reale, e per rassicurare chi già potrebbe immaginarmi sull’orlo di un cornicione; ovviamente è impossibile evitare che la realtà filtri all’interno di una narrazione, anzi la funzione della letteratura, della buona letteratura, dovrebbe essere, a mio parere, quella di riuscire a ricreare, ridefinire e rimodellare la realtà, dando vita ad una nuova e originale visione delle cose; ma questa è un’altra questione, ed eviterei di avventurarmi in discorsi da critici letterari, ché in questo campo fondamentalmente sono poco preparato… Spero,quindi, che quello che ho scritto vi piaccia, e vi auguro buona lettura. Anticipo, inoltre, che, per ragioni di spazio, il suddetto racconto verrà suddiviso in quattro parti. Un saluto, Fabrizio.
A tutti quelli che se ne sono andati, ovunque essi siano.
A Isabella, lei sa perché.
Una sera come tante ( quante ne resta a morire
di sere come questa?) e non tentato da nulla,
dico dal sonno, dalla voglia di bere,
o dall’angoscia futile che mi prendeva alle spalle,
né dalle mie impiegatizie frustrazioni:
mi ridomando, vorrei sapere,
se un giorno sarò meno stanco, se illusioni
siano le antiche speranze della salvezza(…);
(Giovanni Giudici, Una sera come tante)
Metti che una sera come tante ti sentissi più vuoto, più insulso e più stanco del solito; una sera di quelle in cui ti sei ripromesso – sto tranquillo, libero la testa, la smetto con le consuete paranoie del cazzo e mi diverto e basta-, ma dietro l’angolo c’è sempre qualcosa a bloccarti, a sabotare i tuoi progetti e a farti ripiombare nell’angoscia di sempre; metti che una sera come tante, invitato a una tavolata tra amici, ti accorgessi quanto le stronzate che si dicono sulle tipe che ti vorresti fare, su quelle che ti sei fatto, sul tempo, le sbronze, le sbronze di un tempo, amarcord vari ed eventuali siano ormai un rituale abusato, qualcosa di così formale da lasciarti privo di fiato; metti che tra tutti ci fosse anche una tipa che è bastato uno sguardo, o solamente sentirla parlare, per capire che ci sa fare, che non si comporta, non si atteggia, che è fottutamente interessante; metti che sì e no le avessi rivolto la parola una decina di volte, e in tutti questi frangenti ti fossi comportato, per colpa della tua dannata insicurezza, come un idiota patentato, sparando pessime battute a raffica, risultando più superficiale e coglione di quanto tu sia in realtà, mostrando un’immagine di te che non è quella reale … Metti che una sera come tante con i tuoi stramaledettissimi viaggi mentali potresti essere arrivato in Canada, che in realtà è probabile solamente che non le piaci, perché tra le persone piacersi è una questione di chimica, e qualcosa non è scattato e amen. Metti che comunque non sarebbe un problema, se non fosse che a un certo punto, tra le risate scroscianti e i bicchieri vuoti, tutto attorno a te iniziasse a deformarsi e a roteare vertiginosamente; metti che una fitta lancinante improvvisa colpisse una parte imprecisata del tuo organismo, che sentissi la bocca impastarsi, la salivazione azzerarsi; che un’ennesima crisi di panico, un confuso e atroce fondersi di sentimenti indefinibili a metà strada tra la rassegnazione, la tristezza e il torpore ti immobilizzassero. Metti che una sera come tante ti accorgessi che ne hai le palle piene di stare così, che in fondo stare così non ha senso, che è inutile fare finta di niente, non darci peso. Perché è una cosa fotuttamente grave a ventisette anni non avere un lavoro, programmi per il futuro, ambizioni, progetti, che tutto ti scivoli addosso senza lasciare traccia. Metti che una sera come tante, allora, non ti sentissi più disperato, che la disperazione è un sentimento labile che ti divora, ti immobilizza improvvisamente, e ancora più improvvisamente ti abbandona, lasciandosi dentro quella sorta di senso di onnipotenza di chi è sopravvissuto a qualche tragedia o malattia che pensava incurabile; metti che una sera come tante, invece, diventassi più freddo, razionale e risoluto e tutto si mostrasse con maggiore chiarezza: otto anni di università buttati nel cesso, una laurea che nella più rosea delle prospettive ti servirà per pulirti il culo; otto anni di esami, ad arrancare dietro segreterie, provveditorati agli studi, chilometri di burocrazia, domande perse nel vuoto; otto anni di disillusione e nausea, manifestazioni, collettivi e sit-in in piazza; otto anni a credere fermamente che questo servisse, che impegnarsi era giusto; otto anni con il fiato mozzato, di dipendenza e rancore, di biblioteca e panini mangiati in solitudine; otto anni da nerd auto-commiserevole e baretti, birrette sorseggiate ed aperitivi innocui in cui affogare l’inutilità; otto anni sprofondati in un vuoto pneumatico, centrifugati in un secondo. Continua a leggere